domenica 18 agosto 2019

Fano, allarme del vescovo Trasarti «C'è chi prega perché il Papa muoia»


Frustata del vescovo contro
le ipocrisie dei cristiani:
«Tanti devoti, pochi credenti»



Chi sfrutta i lavoratori fa peccato mortale anche se va a messa tutte le domeniche» PAPA FRANCESCO.

FANO - Un monito severo con un accorato appello. L’omelia di monsignor Armando Trasarti nella celebrazione serale di San Paterniano è stata una frustata contro ipocrisie e contraddizioni degli stessi cristiani praticanti, con un richiamo forte a riscoprire il messaggio vero del Vangelo. «Ci sono molti devoti oggi, ma pochi credenti - ha scandito monsignor Trasarti -. Il devoto è chi in chiesa si batte il petto, bacia i santini, fa gli inchini ma poi nella vita è razzista, indifferente, accetta con tranquillità come dice il Papa l’iniquità, l’ingiustizia».

Parole chiare e vibranti che hanno consentito di leggere in filigrana le vicende dell’attualità politica del Paese e anche le dinamiche parrocchiali della chiesa locale. «Questo non significa battagliare contro i devoti - ha precisato il vescovo della diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola - ma impegnarsi perché la devozione cristiana, che è frutto di ascolto e non di parole mie, diventi una declinazione nella vita di affari, di fabbrica, affettiva, sociale e politica. Troppo comodo baciare un santino e poi mangiarsi con il portafoglio il collega di lavoro».

Il vescovo ha evidenziato la secolarizzazione della società con la perdita del senso di Dio, che non si recupera con le forme di devozione prive dell’afflato del Vangelo. «Se moltiplichiamo le processioni, le Madonne, i rosari - ha sottolineato - non cambia niente, l’Italia è devota da morire ma ha un razzismo all’80 per cento. Un’iniquità di giudizio nei confronti dei poveri che fa paura, una rancorosità anche nelle chiese che è impressionante, allora essere cristiani non è fuggire dal mondo ma è impegnarci per realizzare il Regno dei cieli nell’oggi che ci è dato di vivere, con l’esempio della nostra vita».

Trasarti con pacatezza ha espresso contenuti drammatici: «Non mancano minacce, interne ed esterne alla chiesa, quanta gente prega perché il Papa muoia presto. Ve lo garantisco. Nel mondo c’è tanta persecuzione contro la Chiesa, in Italia non c’è quella fisica, finora, ma quella psicologica e morale ci fa a pezzi. La Chiesa soffre molto più dal di dentro che dall’esterno oggi. E’ un fatto nuovo, eclatante». L'esortazione ai fedeli è stata quella di farsi portatori nella vita personale e di relazione del messaggio di giustizia e amore del Vangelo





























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52 anni fa moriva Don Milani, il prete “ribelle” 

che ci ha insegnato il cambiamento


Nel 1967 muore Don Milani. Pochi mesi prima, insieme ai suoi alunni di Barbiana, aveva pubblicato “Lettera ad una professoressa”: il sogno di un mondo diverso, in mezzo ai banchi di scuola.

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          di Federica D’Alfonso

Don Milani Il 26 giugno del 1967 muore, a Firenzei. Un personaggio definito più volte “scomodo” perché schierato a favore delle classi più povere pur provenendo da una ricca famiglia, perché aveva scelto di essere insegnante di vita prima di poter diventare pastore di anime. La sua “ribellione” a quel sistema sociale escludente e classista di cui, fin dalle prime lettere e i primi scritti, denuncia il meccanismo perverso, si esemplifica nella bellissima “Lettera ad una professoressa”, scritta inseme ai suoi alunni pochi mesi prima di morire e il cui insegnamento oggi, a 50 anni dalla sua scomparsa, non cessa di essere fondamentale. Figlio di una ricca famiglia fiorentina, Lorenzo Milani vive in un ambiente laico, colto e raffinato, e cresce con la passione della pittura. Mentre affresca una vecchia cappella sconsacrata, nelle pause sfoglia un vecchio messale: qui scopre il Vangelo che con il suo messaggio puro ed essenziale cambierà per sempre la sua vita. Il monito evangelico dell’uguaglianza e della beatitudine dei poveri sarà punto di partenza e di arrivo della sua critica al sistema scolastico. Prima di essere prete, Don Milani decide di voler essere maestro: egli decide che è necessario partire dalla scuola per elevare “le bestie ad uomini, e gli uomini a santi”. Una scuola per gli esclusi “Un ospedale che cura i sani e respinge i malati”: questa è, secondo Don Milani, la fisionomia che la scuola pubblica ha assunto negli anni. Una scuola classista che valutava allo stesso modo i figli dei ricchi e dei poveri senza tener conto dei vissuti di ciascuno di loro, e che era gradualmente divenuta incapace di preparare i ragazzi ad affrontare il domani.

Don Milani ha in mente una scuola diversa: un’istituzione che sia inclusiva, democratica, il cui fine doveva essere far arrivare tutti gli alunni ad un livello minimo di istruzione: solo così sarebbe stato possibile sperare di combattere l’ineguaglianza sociale e lo sfruttamento generale di cui le scuole sono soltanto una replica. Fu così che tramite la didattica della scrittura collettiva, gli alunni di Barbiana insieme Don Milani scrivono “Lettere a una professoressa”, un’opera che riassume in un linguaggio semplice, accessibile a tutti, la complicata situazione scolastica italiana e soprattutto tenta di darvi un’alternativa. A Barbiana, contro “Pierino del dottore” in foto: Don Lorenzo Milani Nel 1954 Don Milani viene mandato in uno sperduto paese del Mugello, che all’epoca contava 39 abitanti. La quotidianità di Barbiana confermerà, per Don Milani, lo stretto legame fra sistema scolastico, arretratezza e sfruttamento delle classi subalterne che egli aveva già avuto modo di osservare in altri piccoli paesini fiorentini. Il parroco si trova davanti “ragazzi che non hanno mai sentito dire che a scuola si va per imparare, e che andarci è un privilegio”. Così Don Milani comprende che, prima di essere parroco, deve farsi insegnante. Sandro in poco tempo s’appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima. A giugno il “cretino” si presentò alla licenza e vi toccò passarlo.

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 Alle esperienze di vita quotidiana si affiancano riflessioni di carattere generale di critica al sistema scolastico vigente: memorabile resta l’esempio di “Pierino del dottore”, ovvero del tipico figlio di famiglia istruita e benestante, emblema del classismo e dell’esclusività di cui la scuola si faceva garante in quegli anni. Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta.




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Chi sfrutta i lavoratori fa peccato mortale anche se va a messa tutte le domeniche»

L’ omelia di Francesco a Santa Marta: «Anche qui, in Italia, per salvare i grandi capitali si lascia la gente senza lavoro. Guai a voi che sfruttate la gente, il lavoro, che pagate in nero, che non pagate il contributo per la pensione, che non date le vacanze. Questa ingiustizia è peccato mortale. Chi lo fa non è in grazia di Dio. Lo dice Gesù nel Vangelo»









«“Guai a voi ricchi!”, nella prima invettiva dopo le Beatitudini nella versione di Luca. Se uno oggi facesse una predica così, sui giornali, il giorno dopo: “Quel prete è comunista!”. Ma la povertà è al centro del Vangelo. La predica sulla povertà è al centro della predica di Gesù: “Beati i poveri” è la prima delle Beatitudini».
Papa Francesco dedica la Messa celebrata giovedì mattina a Santa Marta al “nobile popolo cinese”. Oggi, infatti, a Shanghai si celebra la festa della Madonna di Sheshan, Maria Ausiliatrice. All’ omelia, commentando il Vangelo del giorno, invita a non lasciarci sopraffare dalle ricchezze, perché esse ci sono state offerte da Dio per donarle agli altri. In particolare, prendendo spunto dalla Prima Lettura, tratta dalla lettera di San Giacomo apostolo, in cui si evidenzia come il salario dei lavoratori non pagato gridi e le proteste siano giunte alle orecchie del Signore, il Pontefice ripete quanto detto dall’ apostolo ai ricchi, non usando “mezze parole”, dicendo le cose “con forza”. Evoca infatti ricchezze “marce”. E, ricorda il Papa, Gesù non aveva detto di meno: «“Guai a voi ricchi!”, nella prima invettiva dopo le Beatitudini nella versione di Luca. “Guai a voi ricchi!”. Se uno oggi facesse una predica così, sui giornali, il giorno dopo: “Quel prete è comunista!”. Ma la povertà è al centro del Vangelo. La predica sulla povertà è al centro della predica di Gesù: “Beati i poveri” è la prima delle Beatitudini: E la carta d’ identità, la carta identitaria con la quale si presenta Gesù quando torna al suo villaggio, a Nazareth, nella sinagoga, è: “Lo Spirito è su di me, sono stato inviato ad annunciare il Vangelo, la Buona Novella, ai poveri, il lieto annunzio ai poveri”. Ma sempre nella storia abbiamo avuto questa debolezza di cercare di togliere questa predica sulla povertà credendo che è una cosa sociale, politica. No! È Vangelo puro, è Vangelo puro».

«Anche qui, in Italia, per salvare i grandi capitali si lascia la gente senza lavoro»

Francesco invita i fedeli a riflettere sul perché di una “predica così dura”. La ragione sta nel fatto che «le ricchezze sono un’ idolatria, sono capaci di seduzione». Gesù stesso, spiega il Pontefice, dice che «non si può servire due signori: o tu servi Dio o tu servi le ricchezze». E Francesco osserva poi che le ricchezze vanno anche «contro il secondo comandamento perché distruggono il rapporto armonioso fra noi uomini, rovinano la vita, rovinano l’ anima». Il Papa ricorda la Parabola del ricco - che pensava alla “buona vita”, alle feste, alle vesti lussuose - e del mendicante Lazzaro, “che non aveva nulla”. Le ricchezze – ribadisce – “ci portano via dall’ armonia con i fratelli, dall’ amore al prossimo, ci fanno egoisti. Giacomo reclama il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle terre dei ricchi e che non sono stati pagati: qualcuno - dice Francesco - potrà confondere l’ apostolo Giacomo con “un sindacalista”. Eppure, assicura il Pontefice, è l’ apostolo “che parla sotto l’ ispirazione dello Spirito Santo”.
L’ insegnamento del Vangelo è valido ancora oggi: «Anche qui, in Italia, per salvare i grandi capitali si lascia la gente senza lavoro», denuncia il Papa, «Va contro il secondo comandamento e chi fa questo: “Guai a voi!”. Non io, Gesù. Guai a voi che sfruttate la gente, che sfruttate il lavoro, che pagate in nero, che non pagate il contributo per la pensione, che non date le vacanze. Guai a voi! Fare “sconti”, fare truffe su quello che si deve pagare, sullo stipendio, è peccato, è peccato. “No, padre, io vado a Messa tutte le domeniche e vado a quell’ associazione cattolica e sono molto cattolico e faccio la novena di questo…”. Ma tu non paghi? Questa ingiustizia è peccato mortale. Non sei in grazia di Dio. Non lo dico io, lo dice Gesù, lo dice l’ apostolo Giacomo. Per questo le ricchezze ti allontanano dal secondo comandamento, dall’ amore al prossimo».
Le ricchezze, dunque, hanno una capacità tale da renderci “schiavi”. Ecco perché Francesco esorta a «fare un po’ più di preghiera e un po’ più di penitenza», non per i poveri ma per i ricchi: «Tu», conclude, «non sei libero davanti alle ricchezze. Tu per essere libero davanti alle ricchezze devi prendere distanza e pregare il Signore. Se il Signore ti ha dato ricchezze è per darle agli altri, per fare a nome suo tante cose di bene per gli altri. Ma le ricchezze hanno questa capacità di sedurre noi e in questa seduzione noi cadiamo, siamo schiavi delle ricchezze».

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